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Sofia Nannini e il calcestruzzo islandese. Fare ricerca in storia dell’architettura tra Torino e Reykjavík

Alzi la mano chi conosce l’architettura islandese, o chi pensa che addirittura esista un’architettura in Islanda.

La risposta l’aveva già data il poeta Wystan Hugh Auden, scrivendo nelle sue Letters from Iceland nel 1937: «There is no architecture here». Ma nonostante la scarsa popolazione – poco oltre le trecentocinquantamila persone – e la lontananza dai centri del panorama internazionale, l’architettura islandese esiste, eccome. E la studia una brillante ragazza di Bologna, che sta svolgendo il suo dottorato in storia dell’architettura presso il Politecnico di Torino.

La storia dell’architettura islandese – come in fondo tutta la storia dell’isola – è un’affascinante storia di sopravvivenza, lotta contro gli elementi, autodeterminazione culturale e indipendenza.

La quasi totale assenza di alberi sull’isola – si suppone che le foreste, che un tempo rivestivano circa il 40% della superficie, siano state abbattute dai primi colonizzatori, e ora ricoprono solo un 2% dell’intero territorio – ha da sempre causato una cronica mancanza di legno da costruzione. Al tempo stesso, il duro basalto islandese risulta una pietra troppo difficile da lavorare per erigere muri, e sull’isola non si trova argilla per la produzione di mattoni. Queste condizioni estreme hanno determinato un monopolio di quasi mille anni della costruzione in torba (la tradizionale baðstofa), con rari edifici in pietra realizzati dal governo danese (durante il dominio della Danimarca), e costose abitazioni in legno d’importazione scandinava, spesso commissionate dai mercanti nei villaggi portuali e rivestite in lamiera dai colori vivaci. La possibilità di costruire residenze in grado di proteggere tutti gli abitanti dall’umidità e dal freddo è emersa soltanto da fine Ottocento. Il cemento, importato dall’Europa e accolto letteralmente come «pozione magica», è diventato in pochi anni il materiale edilizio più diffuso nella capitale e in tutto il Paese.

Se l’identità islandese si è sempre fondata su valori linguistici e letterari – una lingua antica e una letteratura annoverata tra le grandi epiche della storia –, l’architettura è invece stata intesa come un fenomeno d’importazione.

Il maggiore architetto della storia islandese è stato, negli anni tra l’autonomia politica del 1919 e l’indipendenza del 1944, Guðjón Samúelsson, che ha avuto un ruolo chiave nella definizione di un’identità nazionale attraverso la costruzione di edifici pubblici che hanno trasformato un villaggio di pescatori e commercianti nella capitale di una repubblica. Il suo progetto più noto è la monumentale chiesa Hallgrímskirkja,che svetta sul centro città e si può scorgere a chilometri di distanza. Progettata negli anni ’30 e terminata solo nel 1986, essa è presto diventata l’edificio simbolo della capitale, grazie alla sua colossale facciata in calcestruzzo che imita le formazioni basaltiche dell’isola, come una gigantesca colata lavica che si è fatta architettura.

Ma la particolarità dell’edilizia islandese non sta solo nella lotta contro il vento e il freddo: l’assenza di una scuola di architettura locale, fino all’apertura di una laurea triennale in architettura presso Listaháskóli Íslands (Iceland Academy of the Arts) nel 2002, ha obbligato tutti gli aspiranti progettisti a formarsi altrove: inizialmente in Danimarca, poi in Germania, in Francia e oltre oceano, tra Canada e Stati Uniti.

Questa diversità educativa può essere anche uno dei motivi per cui, in una lingua che cerca sempre di coniare termini d’etimologia norrena anche per neologismi o prestiti linguistici, la parola «architettura» è oggi quasi sempre traducibile come arkitektúr (anche se in passato si utilizzavano termini più locali, come byggingarlist, ovvero arte del costruire, o húsagerð, costruzione di case).

In un’isola dalla forte e omogenea identità culturale, l’educazione così eterogenea dei propri progettisti può apparire inaspettata. Ma è proprio questa varietà architettonica, dai risultati talvolta originali, talvolta stridenti, che si può percepire passeggiando per la capitale. Colorate ville in legno si alternano a residenze che sembrano uscite dal quartiere Weissenhof di Stoccarda o dall’Esposizione di Stoccolma; le monumentali e variegate costruzioni di Guðjón Samúelsson stanno accanto ai progetti in calcestruzzo ben rifinito dello Studio Granda. Poco fuori dal centro, isolato e luminoso, si trova il centro culturale Norræna Húsið (Nordic House), unico progetto di Alvar Aalto nell’isola, costruito nel 1968.

Nonostante i vasti sobborghi di villette prefabbricate che emergono dai campi di lava, il centro di Reykjavík è un sorprendente caleidoscopio di architetture, materiali e colori che rende unica questa piccola e vivace capitale. Senza dubbio l’architettura di Reykjavík riflette la posizione geografica dell’isola, tra l’Europa e l’America, in un oceano Atlantico molto più denso di relazioni culturali e materiali di quanto si possa pensare.

Un ulteriore elemento è stato aggiunto di recente al mosaico di Reykjavík: la trasparente opera house Harpa, collocata sul mare, nel vecchio porto. Progettato da Henning Larsen Architects, l’edificio è interamente rivestito da pannelli tridimensionali in vetro, realizzati insieme all’artista danese-islandese Ólafur Elíasson, che trasformano la struttura in un gigantesco cristallo – d’altronde l’isola per secoli era nota grazie alla produzione del cristallo d’Islanda, in inglese Iceland spar, largamente usato nella produzione di lenti da ottica.

Sofia Nannini vive tra Bologna, Torino e Reykjavík, e si è laureata nel marzo 2017 in Ingegneria Edile/Architettura presso l’Università di Bologna. Da novembre 2017 frequenta il corso di dottorato in “Architettura. Storia e Progetto” del Politecnico di Torino, dove sta svolgendo le sue ricerche per una tesi intitolata “The Role of Concrete in Icelandic Architecture (1847–1958)”.

Il suo principale oggetto di studio è il calcestruzzo, declinato in tutte le sue forme e caratteristiche, e il ruolo che esso ha avuto nella storia dell’architettura islandese.

In Islanda già lavorano due architetti italiani, Massimo Santanicchia (che insegna presso Listaháskóli Íslands) e Paolo Gianfrancesco (THG Arkitektar); Sofia è invece la prima studiosa italiana a svolgere ricerche sulla storia dell’architettura dell’isola.

Al termine del dottorato, Sofia vorrebbe continuare a svolgere ricerche in questo ambito – magari allargando il campo d’indagine a ulteriori storie dell’architettura nei paesi scandinavi. Per ora i risultati delle sue ricerche si possono trovare qui https://polito.academia.edu/SofiaNannini.

 
sofia nannini foto